Tradizione e scienza: ecco cosa c’è alla base dei recenti premi di “Terra Argillosa”


OFFIDA − La terra, le tradizioni mezzadrili, la scienza, una passione, un cambiamento continuo. Dovessimo condensare cos’è “Terra Argillosa”, fresca vincitrice in Germania di un riconoscimento di 99⁄100 punti con Marche Rosso IGT “Confusion” all’Organic Wine Award 2020, non potremmo trovare altri sostantivi.
Abbiamo intervistato Raffaele Paolini, uno dei titolari, insieme alla moglie Sara Tirabassi, della cantina che, tra i rilievi offidani, sta cercando di unire due mondi che sembravano antitetici.

Parliamo della competizione che vi ha visto vincere con due dei tre vini presentati, cosa può dirci?

«La competizione “Organic Wine Award” − dice Paolini − mi ha colpito da subito per il suo approccio scientifico. Questo dato sicuramente mi ha solleticato e spinto ad aderirvi. Io sono un sommelier, oltre che il titolare di una cantina, e non avevo visto così tante voci su di una scheda di valutazione. Dirò di più, ci è stato anche utile. Ci ha fornito degli spunti ulteriori per migliorarci. Noi abbiamo partecipato inviando tre campioni di vino. Due di loro sono tornati con una coccarda. Quest’ultimo − Marche Rosso IGT “Confusion”, ndr − è il risultato della mescolanza di quattro tipi di uve, francesi in questo caso. E’ stata una scelta azzardata: nell’offidano si usano prevalentemente due tipi di vitigni: Montepulciano, Sangiovese, ma che ci ha premiato, alla lunga. I giudici ci hanno fornito una comunicazione insieme al premio. Sappiamo che il vino dovrebbe raggiungere il proprio apice qualitativo nel 2023, ad undici anni esatti dalla vendemmia. Questo, unito alla valutazione di 99⁄100, ci consegna il quadro esatto del lavoro fatto finora e ci ripaga anche dei nostri sforzi».

Bene, abbiamo parlato della competizione, ma cos’è, esattamente, “Terra Argillosa”?

«Questo − riprende Paolini − è quello di cui mi piace maggiormente parlare. “Terra Argillosa” fino al 2018 si chiamava “PS Winery”. Questa data segna il ritorno in patria del mio ex socio americano, Dwight Stanford. Io ho riacquistato la sua quota ed ho preso la palla al balzo per rendere sempre più aderente questo progetto, coinvolgendo mia moglie, alla mia storia personale. Non che prima non fosse una cosa mia, ma era il risultato di due visioni e di due culture diverse. Io e mia moglie proveniamo da una storia contadina. Io, ad esempio, avevo i nonni che provenivano dalla mezzadria. I miei primi ricordi di filari e di vini sono ancorati lì.

Mia moglie ha rivisto tutte le etichette, inserendo il profilo stilizzato dell’appezzamento di terra (sei ettari). Questo perché ci siamo resi conto che tutto parte da qui, da questa terra, che è, appunto, argillosa. Noi siamo circondati da tante realtà che fanno del vino e dell’agricoltura i principali protagonisti del proprio lavoro. E siamo fortunati in questo, perché tutti hanno un approccio rispettoso e bio.

La mia visione è, come in parte si è capito nel discorso della competizione, molto scientifica sul lavoro. Cerco di unire le antiche tradizioni alla scienza, ponendomi nella prospettiva di come risolvessero i problemi della quotidianità i contadini prima degli anni ’60, ovvero la rivoluzione agricola. Nel mio continuare ad esporre si capirà di più.

Mio nonno aveva delle arnie, ed anche io vorrei metterle. Loro mi risolverebbero un problema. Durante le grandinate i grappoli vengono inevitabilmente danneggiati. Le api, attratte dalle sostanze zuccherine, andrebbero a salvarli. Abbiamo delle galline, quindi abbiamo anche delle uova. Abbiamo due orti: uno invernale ed uno estivo, con loro riusciamo a sfamare sia noi che le nostre famiglie.
Ci piacerebbe anche mettere un maiale, ma questo mi permette di toccare un altro punto: tra i nostri nonni e la mia generazione si è creato un buco. Di cosa parlo? Delle generazioni (una o due) che hanno reciso il proprio antico legame con la terra. Prima era un continuo tramandarsi tra padre e figlio; ora, qualora volessi farlo, dovrei mettermi sui “libri” per capire come lo si alleva. Io ci tengo che le cose siano fatte bene. Naturalmente riusciamo a portare avanti le nostre intuizioni per quello che riusciamo, umanamente, a fare.

Ma la vera caratteristica che ci preme rimarcare è che vogliamo essere sostegno per il nostro territorio. Tra le tante modalità di implementazione dei personali clienti, noi abbiamo la visita in cantina. Io stesso, quando sono in vacanza, amo andarci. In questi momenti preferisco rifornirmi dei prodotti che hanno i miei vicini più prossimi. Olio − questo la facciamo anche noi, in parte −, formaggi, pane, marmellate (ecc. ecc.): sono tutti offidani.
Il lock down ci ha tolto la possibilità di fare fiere in giro per l’Italia o all’estero − talvolta per un produttore sono anche sangue e dolore −. Ora abbiamo fatto i conti ed abbiamo visto che, se c’è un aspetto positivo, abbiamo risparmiato molti soldi. Questo ci ha permesso di scandagliare altre modalità per intercettare nuovi clienti, facendoci conoscere. La visita in cantina, sicuramente, diventerà un percorso che andrà sempre più sviluppato. Questo ci permette di raccontarci e di far in modo che una persona, ordinando in un ristorante una bottiglia del nostro vino e leggendo la nostra etichetta etichetta, sappia la storia».

Print Friendly, PDF & Email

Articolo Precedente

Scuola, prolungata la chiusura del "Bice Piacentini"

Articolo Successivo

Padre Raniero Cantalamessa nominato Cardinale