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“Licenziata senza nessuna motivazione”. La disavventura di Aida Dhefto
Ci scrive Aida Dhefto, una donna albanese, laureata in economia e commercio e che ha interrotto la propria carriera per venire in Italia con la propria famiglia 3 anni fa. Recentemente ha lavorato presso una famiglia ascolana ma le cose non sono andate molto bene.
Ecco la sua storia.
“I poveri di tasca sono i più miserabili di spirito”. Con questa frase ho capito di essere stata licenziata da una nota famiglia di Ascoli. Questo è stato un sms inviato a me come risposta alla lettera del mio avvocato, dove chiedevo di essere reinserita al mio posto di lavoro. Lavoravo presso questa famiglia da quasi un’anno. Prima in nero, e poi per metà del tempo con contratto regolare. Erano gentili nei miei confronti, e mi sono affezionata a loro, pensando a i miei genitori che gli ho lasciati nel mio paese” dice.
“Nel settembre 2020, dopo due anni di lavoro, sacrifici e imprevisti, torno al mio paese per vedere i miei genitori e rinovare i nostri passaporti, anche quelli dei miei due figli. Mi sono occupata di trovare una sostituta per il mio lavoro, una persona fidata, la mia amica. Così potevo partire più tranquilla, sicura di aver portato a loro una persona fidata. Poco sapevo che da lì sarebbero cominciati i miei problemi. Il loro permesso per restare al mio paese avrei dovuto prenderlo per iscritto, perché a quanto pare, la parola qua non vale niente. Per me questo risulta difficile, perché nel modo in cui mi hanno educata la parola ha valore ed esiste “l’accordo tra gentiluomini” dice Aida.
“Tra procedure per i nuovi passaporti e le restrizioni della pandemia ho fatto le mie ferie, ma nelle comunicazioni avvenute con i miei datori di lavoro, la cosa importante era la certezza che sarei rientrata in Italia appena possibile. Al mio rientro, vengo a sapere da altre persone, che ero licenziata. Nei 14 giorni di quarantena al rientro, nessuno della famiglia dove lavoravo mi dava spiegazioni. Niente risposte al telefono. E poi, alla fine, una telefonata fredda. Il modo in qui mi hanno parlato mi ha fatto sentire offesa, tradita, umiliata. A quando pare, per colpa mia il contratto era interrotto e loro hanno poi assunto la mia amica, quella che avevo accompagnata io da loro in piena fiducia. “Non ti dobbiamo dare una lira!”, questa era la loro versione”.
“Non mi si è data nemmeno la possibilità di parlare davanti a loro. Tramite il mio avocato ho mandato una lettera dove spiegavo la situazione e mi mettevo a disposizione per tornare al mio posto di lavoro. “Certo che sono sempre più convinta che i poveri di tasca sono i più miserabili di spirito”, un sms che mi ha fatto capire che la lettera l’avevano ricevuta. Quando ero al mio paese pensavo al momento del rientro e a quando avrei dato loro il regalo simbolico scelto dai miei genitori, un ringraziamento modesto per la famiglia italiana. Il regalo è rimasto a casa mia, mentre il messaggio non è solo per me, ma per tutti quelli che fanno anche due lavori per arrivare a fine mese”
“Mi sono trovata a fare questo lavoro per necessità e per me non è una vergogna. Ma perché essere trattata cosi da persone che poi sono conosciute e stimate da tutti?” conclude Aida.
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