L’analisi un nostro lettore: “E’ davvero necessario un nuovo ospedale nel Piceno?”
Pubblichiamo la lettera di un nostro lettore, l’economista Angelo Mucci, in merito all’attualissimo tema del nuovo ospedale del Piceno.
Le Marche stanno affrontando un importante dibattito sulle opere infrastrutturali.
La carenza è evidente, storica, affrontata su tutti i tavoli di contrattazione, anche interregionali e persino nazionali; eppure forti sono le perplessità sulla possibile convergenza di interessi quando non sono mossi da un comune intento, soprattutto per divergenze di vedute economiche e di risorse.
Le Marche stanno affrontando da anni unicamente questo problema; questo perché la Regione è carente di moderne ed idonee opere al servizio delle imprese, dei cittadini ed, in generale, di tutti gli stakeholders. Sul punto è appena il caso di ricordare il Progetto Centralia per la realizzazione della Fano-Grosseto, una società al 55% partecipata dall’Anas, controllata dal Ministero; un progetto alla fine sospeso per difficoltà tecniche.
Ebbene, al termine dell’analisi di fattibilità, la soluzione proposta fu proprio la convergenza viaria con il Quadrilatero. Motivo: una scelta di finanziamento, per scarsità di risorse autonome rispetto al complessivo sistema strategico regionale.
Ma tutto questo è vero?
Iniziamo da ciò che parrebbe più ovvio. Da un rapido sguardo alla storia amministrativa dell’ente Centralia, parrebbe infatti che l’attività politica abbia visto i comitati interregionali riunirsi solo tra il 2004 ed il 2005. Né è andata meglio alla finanza di progetto o alle forme di partenariato pubblico-privato proposte: tutte idee cadute all’interno del polverone amministrativo-burocratico. Ad esempio lo strumento del contratto di disponibilità con cui furono convocate una serie di società multinazionali per la realizzazione di una “Quadrilatero minore” avrebbe affidato ad un contraente privato la costruzione – a proprio rischio e spesa – di un’opera pubblica. Lo Stato si sarebbe impegnato poi a restituire le risorse, una volta realizzata l’opera, attraverso la fiscalità differita, sostenendo un costo d’investimento differito nel tempo. Si direbbe fin qui “ottimo, lo Stato ripagherà le risorse nel tempo”.
Eppure Centralia nasce nel 2014 e muore nel 2015. Motivo? Una società pubblica di progetto non può avvalersi di un contratto di disponibilità: al via quindi con la liquidazione della società e l’esclusione del progetto dalle opere strategiche Def.
Ma andiamo oltre. Perché sembra che una simile vicenda si sta ripetendo proprio con il progetto dell’Ospedale Spinetoli-Colli. Un progetto prima, poi uno studio di fattibilità, magari un plastico… tutte attività burocratiche che solo uno sprovveduto non ravvedrebbe – almeno per analogia di intenti e limiti – simili al caso Centralia.
E, per avvedutezza, andiamo ben oltre la questione amministrativa, che mal si adatta ad una politica consapevole delle difficoltà strutturali – leggi, regolamenti, burocrazia – della politica italiana, specie sul terreno delle infrastrutture e delle opere pubbliche.
Un primo tassello per una intelligente disamina dovrebbe essere tratto dal contesto economico moderno perché su tale piano l’emergenza sanitaria ha posto tutta la collettività, soprattutto in tema di salute e tutela del contratto sociale.
Sappiamo bene che la crisi sta colpendo duramente tutta la popolazione e che continuerà a ridurre i redditi ed i consumi ancora per molto. Il privato come il pubblico avvertono indistintamente l’aggravarsi del contesto economico e sociale sia nelle aspettative che nell’economia reale, la domanda.
Non che l’emergenza Codiv-19 sia l’unica che nell’ultimo ventennio si è abbattuta sui mercati, sia finanziari che reali. Ma più delle altre ha dato ragione a chi, da anni, ha reputato dirigere le economie occidentali verso un massiccio impiego della spesa pubblica per sostenere l’occupazione ed i redditi. E non senza poche critiche. Infatti l’idea contraria alle politiche keynesiane vedrebbe prevalere il principio della sana finanza ortodossa, per cui il bilancio pubblico dovrebbe essere rigorosamente sempre in pareggio. Due facce della stessa medaglia, l’una pro intervento pubblico, l’altra pro intervento privato; una a vantaggio del bene comune, l’altra a vantaggio del mercato.
Dando poi un rapido sguardo alle questioni recenti italiane – prima fra tutti la spending review, che altro non sarebbe che l’aggiornamento di quelle passate – è inoltre a tutti noto che la scelta dei policy makers passati è sempre stata orientata verso un eccesso di spesa pubblica a livello di Stato centrale, ciò che ha causato un forte incremento di dipendenti pubblici e, in generale, di deficit; ma se escludessimo dai bilanci statali la spesa pubblica “passata” l’Italia sarebbe il paese con più bassa spesa pubblica in Europa.
Eppure le Regioni avrebbero fortemente bisogno di molta e buona spesa pubblica, ripensando – contemporaneamente – all’organizzazione industriale dello Stato.
La prima implicazione è che purtroppo il debito pubblico non può più essere sostenuto a livello delle Regioni. In merito sarebbe sufficiente rilevare che la Corte costituzionale è dovuta recentemente intervenire, ancora una volta, sul tema dei piani finanziari pluriennali con cui gli enti locali programmano il ripiano dei loro debiti. Con la sentenza n. 115, fornendo un ulteriore tassello alla giurisprudenza in materia di deroghe alle regole contabili sull’equilibrio di bilancio, la Corte ha dichiarato infatti l’illegittimità del “meccanismo di manipolazione del deficit” che consente di “sottostimare l’accantonamento annuale finalizzato al risanamento”, aumentando surrettiziamente la capacità di spesa dell’ente.
La seconda implicazione sosterrebbe l’idea secondo la quale dove interviene il pubblico non dovrebbe intervenire il privato, e viceversa. Dunque una delucidazione puntuale delle competenze Stato-Regioni, queste ultime le uniche a dover indirizzare – nell’interesse dei beni essenziali – gli altri enti locali.
Facciamo però ancora un passo indietro, sempre più vicino alla collettività marchigiana, magari provinciale, perché sono queste le realtà che pagano di fatto il prezzo di queste esternalità.
Ecco che un ospedale – di Spinetoli, o zone limitrofe – con 200 milioni di costi di realizzazione (previsti) ed un 60% di investitori privati parrebbe proprio essere uno sperperio di denari, una esorbitanza scelerata, almeno agli occhi di un cittadino globale, che sia any-where, un business-man, o persino un some-where, un pensionato.
Il motivo è chiaro.
Perché avrà sicuramente costi esorbitanti per la Provincia, per i Comuni, che dovranno mantenere le strade e le altre reti di comunicazione, persino ICT, visto il dilagare della telemedicina o del 5G, soprattutto in ambito medico… e via discorrendo, senza contare le spese accessorie – veri e propri costi di struttura – che certo non hanno, almeno ad oggi, una facile soluzione, semplicemente perché non considerati nei budget.
E di certo ci sono altri esempi che potrebbero risolvere ogni dubbio sull’inutilità economica di un nuovo ospedale ma su cui si tace, come lo è l’Ospedale di Mestre, caso pilota (e modello) di project financing ospedaliero in Italia, prima, tramutato in un “buco nero” per le casse pubbliche, poi. Un nuovo ospedale che è costato 230 milioni di euro, di cui 124 pubblici e 106 privati, ed è stato completato nel 2008, che ha visto imporre un canone annuo a favore dei privati di 72 milioni di euro – cifra poi risultata esorbitante e oggetto di inchiesta per danno erariale fino a rinegoziazione. Si pensi solo al fatto che questo modello verrebbe a costare alla Pubblica amministrazione, in tutto, in 23 anni, circa 1.780 milioni di euro (fonte Sole24Ore del 5/2/2016).
Se volessimo infatti soltanto comprendere perché la spesa pubblica ha un proprio successo solo quando esiste una sana fiscalità, dovremo ad esempio sapere che il modello si basa sul rilievo attribuito al tempo storico – alle necessità immediate di una collettività -, alle aspettative ed alle difformi velocità di aggiustamento dei vari mercati dei beni o servizi offerti – un certa o un’altra struttura di mercato dei servizi pubblici; simili condizioni che verrebbero tutte eliminate dal modello a favore di uno schema di equilibrio generale orientato verso la migliore combinazione di Pil ed di interesse, in grado di eguagliare domanda e offerta su entrambi i mercati, quello dei beni e quello delle risorse finanziarie.
In sintesi allo Stato, agli enti governativi territoriali, basterebbe avere semplicemente maggiore domanda per avere un tasso di rendimento naturale, congruo, capace cioè di consentire una minima e sufficiente accumulazione di capitale.
Ma la sanità esce da un simile paradigma di spesa pubblica.
Uscire dal keynesianesimo significa infatti dare vigore ad una forte deviazione dal pensiero puramente keynesiano, poiché il ruolo del tempo storico verrebbe eliminato, le aspettative verrebbero esogenizzate così come le diverse velocità di aggiustamento del rapporto capitale ed interesse sarebbero anch’esse eliminate.
Tutte condizioni ben lontane dalla tutela del bene comune che non certo ha una durata, una scadenza, né un misurabile interesse finanziario.
Nel modello keynesiano, che i fautori del partenariato pubblico-privato paventano, la ricchezza è costituita da una componente finanziaria e da una reale, dove esiste uno stock di capitale ed un rapporto fra il valore di mercato ed il costo di riproduzione dei beni capitali. Come se, ad esempio, considerassimo lo stock di capitale corrispondente analogo al valore delle azioni emesse da una società quotata.
I primi interrogativi sorgono quindi sui rendimenti di simili opere, che sarebbero persino superiori a qualsiasi attesa se il privato mirasse – come deve – a massimizzare il profitto, con danno delle tasche erariali, oltre a continui aumenti di capitale che gli enti richiederebbero ai fruitori dei loro servizi, alcuni a pagamento – come per i servizi privati internalizzati – altri come carico fiscale – dando luogo ad un aumento del deficit degli enti.
Di contro, sarebbe invece la flessibilità dei prezzi e dei salari il trade-off capace di rendere attendibile una simile proposta infrastrutturale, secondo un’accurata analisi di costi e benefici, ossia il livello di occupazione locale che ne verrebbe.
E’ però a tutti noto che se cadono i salari cadranno anche i prezzi, aumentando nel breve i consumi e diminuendo i risparmi nel lungo periodo. Ecco allora che la sostenibilità di un simile progetto verrebbe immediatamente smentita dalla morfologia economica e reddituale del piceno. La disoccupazione territoriale è infatti il frutto proprio della rigidità dei salari.
Soltanto una politica fiscale efficiente sarebbe capace di far aumentare il livello di occupazione territoriale, quindi di rendere un partenariato in grado di generare ricchezza, salari e occupazione.
Dati e popolazione provinciale alla mano, è purtroppo tutto ampiamente smentito.
Nemmeno il binomio pubblico-privato che la green new economy sta facendo emergere sarebbe poi tanto convincente: se è vero che muterà il settore del lavoro, non è affatto detto che genererà ricchezza privata. A meno che non vi fosse una imponente defiscalizzazione di tutto ciò che è green, consentendo all’imprenditoria di trarre tutto il vantaggio possibile dalle nuove fonti energetiche in termini di profitto, nemmeno qui l’intervento pubblico potrebbe generare occupazione, magari finanziando per sé certi investimenti.
Ciò dipende proprio dal fatto che, mentre le politiche finanziarie (le risorse monetarie) sono molto sensibili ai tassi di interesse e di rendimento, quelle degli investimenti (le infrastrutture) lo sarebbero molto meno.
Né sarebbe indistintamente immaginabile uno shock della domanda ad opera degli enti territoriali tale da generare variazioni sensibili dei redditi della collettività in generale: lo sarebbe in materia di riconversione tecnologica, ma mai in materia di servizi pubblici essenziali.
Un deficit di lungo periodo con politiche fiscali accomodanti, se è di sicuro fuori dagli obiettivi di programmazione concessi e possibili agli enti locali, non è nemmeno realistico; è una illusione, una illusione monetaria: una propensione a pensare alla propria ricchezza in termini nominali piuttosto che in termini reali, ovvero senza tenere conto della mutevolezza del valore di una moneta. A leggere così i bilanci pubblici in termini di ricchezza assoluta piuttosto che numeraria.
“Ad impossibilia nemo tenetur”.
Un ulteriore vincolo al partenariato pubblico-privato, per cogestione di vantaggi/svantaggi fiscali, deriverebbe poi dalla conseguente neutralità fiscale di simili operazioni; fino a causare l’impossibilità di attuare una politica fiscale sostanziosa – per trasferimenti o per risorse erariali dallo Stato – capace di determinare maggiori effetti nel breve sulle aspettative.
Se ne evince che, semplicemente, un nuovo ospedale unico sarebbe ipotizzabile, ancorché possibile, soltanto prevedendo una tassazione di tipo lump-sum – ad esempio imponendo una tassa fissa che consenta di accedere alle cure pubbliche o private indistintamente ad ogni cittadino residente in provincia -, dove la propensione marginale al consumo (quello sanitario, nella specie), pari a c, costituirebbe il moltiplicatore della spesa pubblica diretta, 1/(1-c), mentre quello della tassazione sarebbe pari a c/(1-c).
Oltre le ragionevoli proposte, l’equazione “nuovo ospedale = maggiorazione del contributo sanitario” dovrebbe essere l’unico indicatore alla base di qualsiasi studio di fattibilità. Strano è che fino ad oggi nessun policy maker ha mai discusso una simile questione. Sarebbe, come pare, un vero azzardo morale.
E’ possibile pensare allora ad un’opera pubblica senza rispondere ad una serie considerazioni finanziarie, economiche, elementari? Di certo no.
Naturalmente se la spesa pubblica fosse originata esclusivamente mediante trasferimenti statali, il suo moltiplicatore sarebbe analogo a quello della tassazione, ovvero pari a c/(1-c): se lo Stato centrale pagasse l’intera opera, non vi sarebbe nulla di eccepibile, eccetto i danni da riconversione di certe aree urbane ed extra-urbane ed il necessario pareggio di bilancio annuale.
Inoltre, a ben vedere, l’esistenza di moltiplicatori difformi per la spesa pubblica e la tassazione consente generalmente di attribuire un ulteriore grado di flessibilità alla politica fiscale: una condizione che purtroppo gli enti locali non possono oggi sostenere, privati della loro autonomia fiscale non perché mancherebbero le entrate ma perché non sarebbero in realtà entrate fiscali in quanto neutrali, affatto idonee a modificare la concorrenza.
La vera proposta è quella di passare da uno Stato-imprenditore ad uno Stato-stratega: uno Stato che – come molti economisti sostengono – non regola gli assetti proprietari sul mercato ma, al contrario, vuole rafforzare il perimetro di settori ritenuti cruciali secondo il principio dell’efficienza economica. Socializzare gli investimenti, in tal senso, non è essenziale – non sarebbe nemmeno concorrenziale in verità – se in concreto le risorse pubbliche o, peggio, la struttura di mercato non lo consente.
Può un ospedale, pubblico-privato, incentivare la concorrenza, migliorare i servizi e risolvere le esternalità esistenti, siano esse da costi che da benefici, pre e post realizzazione?
E’ molto semplice spiegare le ragioni che sostengono il “no” ad una struttura unica da costruirsi ex-novo nella provincia di Ascoli Piceno; la politica spieghi invece meglio le ragioni del “si”.
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