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Eremo di San Giorgio in rovina, da cosa deriva questo stato d’abbandono?
ASCOLI PICENO – In questi ultimi giorni stanno tornando a circolare foto della situazione di degrado ed abbandono dell’Eremo di San Giorgio. Un tema che ciclicamente torna in voga tra gli ascolani, soprattutto per i vicini abitanti della frazione di Rosara o di Castel Trosino. Oggi abbiamo intervistato Emidio “Mimì” Tassi, uno dei quaranta proprietari dell’ex lebbrosario. Gli abbiamo chiesto il perché di questa lenta, inesorabile e nociva stasi.
Cenni storici
Costruito – questa le descrizione che ne fa “iluoghidelsilenzio.it” – in posizione isolata sotto una rupe di travertino dal caratteristico colore rosa, immerso nel silenzio del bosco, l’Eremo di S. Giorgio si presenta di grande impatto scenografico alla vista da Castel Trosino. Le prime notizie risalgono alla metà del 1300 quando la nobildonna ascolana Livia Martelleschi vi aveva fondato un Ospedale per curare i lebbrosi con le sottostanti acque sulfuree. Nel 1382 i frati Spirituali seguaci di Angelo Clareno trasformarono l’ospedale in eremo, passato nel 1568 ai frati Minori Osservanti. Il convento fu utilizzato fino alle soppressioni degli enti ecclesiastici del 1861, quando fu acquistato da privati. Il suo abbandono avvenuto nella seconda metà del 1900 ha provocato il rapido deterioramento dell’edificio e la scomparsa del culto secolare di S. Giorgio per il quale a primavera l’Eremo era meta continua di pellegrinaggi. Nelle vicinanze vi sono numerose grotte, probabilmente utilizzate come abitazioni dai monaci.
Le parole di Mimì Tassi
“All’inizio i proprietari erano tre, con le loro morti gli eredi hanno fatto sì che aumentatassero i titolari del bene. Ad oggi siamo quaranta. Questo è il primo problema. Non è facile mettere d’accordo tutti. Ricordo che anni addietro avevamo aperto una trattativa per la cessione dell’immobile alla Comunità Montana, per un motivo o per un altro non si riuscì a chiudere la storia. I titolari o non volevano perdere un punto di riferimento per la comunità o non accettavano il prezzo fatto. Ma questa è solamente una delle trattative che partì e si incagliò poco dopo. E’ difficile anche tornarci fisicamente per me. Io sono nato lì, e non riesco più a metterci piede. È troppo grande il dolore. Io ero disposto anche a darlo via pur di non vederlo abbandonato. In questi anni abbiamo fatto tanti appelli, ma io ormai non ci credo più. E’ dal 1968 che ne faccio, ora sono arrivato ad ottantatre anni. L’ultimo schiaffo ce l’ha dato il terremoto. Col sisma, oltre che minarne la stabilità, ci è arrivata una lettera da parte del Comune. L’edificio era stato definito come “collabente”, ovvero un un immobile che si trova in condizioni tali da non produrre reddito, un fabbricato non agibile, non utilizzabile in alcun modo o allo stato di rudere. Attraverso quel documento ci veniva chiesto di demolirlo e di metterlo in sicurezza. Allo stesso tempo si fece viva la Sovrintendenza, intimandoci di non toccar nulla. Un cortocircuito. Chiamammo il Comune per esporre il problema. Ci indicarono un altro iter, molto farraginoso e prolisso.
L’ultima speranza ce la diede un membro della famiglia Antonucci. Oggi risiede a Roma ed è una delle poche persone che desidera recuperarlo. Lei si era battuta per cercar di far emergere un vincolo d’interesse artistico, unica via per permetterci di preservarlo in qualche maniera… Purtroppo, dopo aver fissato un appuntamento con un architetto, anche a seguito di un articolo dedicato a quel luogo di interesse liturgico di una illustre rivista artistica, la storia si arenò anche lì. Oltre che esser difficile metter d’accordo tutti questi eredi, non è neanche facile per noi fare un mutuo così importante, di svariati milioni, per recuperare la struttura. Penso di essere stato chiaro nel raccontarti come siamo arrivati a questo punto d’abbandono. Io ho vissuto lì fino agli anni sessanta, sono cresciuto lì; oggi non so neanche in che condizioni è la strada per accedervi. Non riesco più a tornarci, come ti ho detto. E non vedo soluzioni al momento.”
Attualmente l’Eremo figura tra “i luoghi del cuore” del FAI, dove è possibile votarlo.
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